Il virus e la paura

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[Articolo di p. Giuseppe Buffon sull’Osservatore Romano] Paura! La maggior parte, per non dire la totalità, degli interventi di questi giorni, intorno al coronavirus, si concentrano, essenzialmente, sulla paura scatenata dal morbo sconosciuto. Anzi, a qualcuno non basta nemmeno il termine paura, perché essa conserva ancora un valore positivo: il termine, infatti, definisce un sentimento già orientato a un oggetto specifico. Il vocabolo corretto sarebbe allora angoscia, perché fobia provocata da disorientamento, da indeterminatezza. Alcuni parlano di paura eccessiva; altri di paura indotta dai media. Altri ancora evidenziano la paura che blocca la socialità, paralizza l’economia e scompone perfino le famiglie.

La paura forse potrebbe invece essere l’occasione per sbloccare la nostra capacità di riflessione e di porci gli interrogativi giusti. Una prima domanda potrebbe essere la seguente: ma è possibile che di fronte a un qualsiasi fenomeno ci mettiamo sempre al centro del sipario? E in effetti anche i tentativi di analisi spirituale hanno finito per fare dell’io il centro della considerazione. Il tema dell’autocoscienza, quello dell’individuo, che nell’impatto con una realtà dirompente sviluppa il senso della propria coscienza. E si diffondono altri ragionamenti ancora, ma tutti funzionali a riportare al centro la domanda, ritenuta come la fondamentale: cos’è che vince la paura?

Attenzione a giocare la carta del Dio che vince la paura, perché è come l’altra, ancora più assurda, del Dio che usa la natura per punire le trasgressioni umane. E se la paura fosse marginale, come lo è l’angoscia, anche se maggiormente dolorosa? E se fosse proprio l’essere umano a essere marginale; e centrale, invece, fosse la sua responsabilità, cioè l’urgenza, l’impellenza, l’imprescindibilità di rispondere a un appello, l’appello che viene dall’altro? Sì, e se il virus in questione costituisse ancora un appello, come già quello degli emigrati o dei Rohingya o degli abitanti del Sud Sudan, o dell’Amazzonia e delle sue popolazioni criminalizzate, a renderci accorti dell’altro? L’appello di una ferita del cosmo, questa, sì, voce di Dio, verbo lacerato e sanguinante a causa del nostro disinteresse e dalla nostra comodità, che non vuole essere disturbata, che non vuole intralci. Se fosse questo appello disperato, la voce che mette un altolà alla nostra mania di dominio, di manipolazione, alla nostra prepotenza. Un appello che rende evidente il fatto che non abbiamo potere, che siamo impotenti, che non possiamo ottenere sempre ciò che vogliamo. Il grido della terra, che dà man forte a quello dei poveri, direbbe Papa Francesco. Il sussurro della voce dell’altro, che ci ricorda che siamo semplicemente creature, che non si sono fatte da sé.

Anche i filosofi dell’antropocene, preannunciata già nell’Ottocento da un geologo, paleontologo, patriota, accademico e presbitero italiano, Antonio Stoppani, hanno dichiarato che nell’età che si apre con la convinzione che l’essere umano avrebbe dominato definitivamente la natura, si scopre invece che proprio la natura si prende la rivincita e reagisce in modo incontrollato, misterioso, indecifrabile.

Non solo i filosofi, ma anche gli scienziati ci dicono che il segreto dell’universo sta nella sua indeterminatezza, quel confine della conoscenza empirica, dove tutto appare oscuro e nello stesso tempo meraviglioso: «una manciata di particelle elementari, che vibrano e fluttuano in continuazione tra l’esistere e il non esistere, pullulano nello spazio anche quando sembra non ci sia nulla, si combinano insieme all’infinito come le venti lettere dell’alfabeto cosmico per raccontare l’immensa storia delle galassie, delle stelle innumerevoli, dei raggi cosmici, della luce del sole, delle montagne, dei boschi, dei campi di grano, dei sorrisi dei ragazzi alle feste, e del cielo nero e stellato della notte» (Carlo Rovelli).

E allora: non «Chi vince la paura?» è la domanda fondamentale, bensì: «Chi sei tu e chi sono io?», come ripete Francesco d’Assisi lungo tutta una notte di preghiera, in casa di Bernardo da Quintavalle. Sì, perché la creazione che violentiamo, che sanguina, disturbando il nostro tran tran, come insegna sempre Francesco nel Cantico, porta l’impronta dell’Altissimo buon Signore, e fa parte della nostra famiglia, tanto che a essa siamo legati da vincoli fraterni. Anche il lupo, infatti, simbolo della natura che incute spavento, che terrorizza, antico coronavirus, può esserci fratello. E poco importa se lupo è il nome di un brigante, perché anche i terroristi delle brigate rosse ci facevano paura, negli anni di piombo. La questione è sempre la stessa, «Chi è l’altro?»: virus, alluvione, terremoto, ma anche cielo stellato, foresta e campi fioriti; ma anche immigrato, indigeno dell’Amazzonia, quilobolas, o pigmeo o cinese… e se non sarò più io al centro della scena, fiorirà allora l’ascolto, la responsabilità, la cura, la fraternità universale, che canta la magnificenza del Datore di ogni regalo!

di Giuseppe Buffon  

Fonte osservatoreromano.va

 
 
 
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