Assisi di Francesco e Chiara – Un luogo di grazia

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Coloro che visitano Assisi dicono che tra le sue mura, nei vicoli, le chiese e i monasteri, si respiri la pace. Ognuno sembra ritrovarvi quel “qualcosa” che aderisce alla parte buona di sé, alla propria anima. Assisi è un balsamo per l’anima. Apre i sensi alla meraviglia del suo paesaggio e dell’arte e all’ascolto di una vicenda che ha del prodigioso per un piccolo borgo medievale, fuori dalle vie principali di comunicazione.

Se guardate Assisi dalla pianura ed escludete dallo sguardo le due estremità, la splendida Basilica di San Francesco da una parte e l’altrettanto armoniosa Basilica di Santa Chiara dall’altra, non rimane che una manciata di case aggrappate alla collina che ascende e che sembrano appese alla poderosa Rocca che le sovrasta. Ebbene, tra quelle poche case è iniziata e cresciuta una delle vicende più belle e feconde della storia della spiritualità di tutti i tempi, che mostra a quali altezze possa elevarsi la nostra umanità quando in essa si innesta la Grazia, parola dolcissima che traduce lo sguardo d’amore e di benevolenza di Dio, che risana e porta a compimento. La Grazia si è posata abbondante su Francesco (1182-1226) e Chiara (1194-1253), un uomo e una donna presi insieme, non perché l’uno abbia attratto e affascinato l’altra: ambedue piuttosto sono stati affascinati dalla vita e dalle parole di Colui che da ricco si è fatto povero, da lontano si è fatto così prossimo fino a trasparire nella fragilità della nostra umanità.

Francesco e Chiara si sono veramente voluti bene, ma non come pensano in molti, cioè coloro che non riescono a sollevarsi da un’ idea di amore che non coinvolga anche l’ebbrezza dell’istinto. Il loro sguardo non era rivolto l’uno verso l’altra e viceversa, ma verso il Volto che a poco a poco si è loro rivelato, per grazia di predilezione, quel Cristo che con stupore hanno incontrato vivo, ciascuno sia nel desiderio intimo di pienezza di vita suscitato dallo Spirito, sia nella Chiesa pur bisognosa di essere restaurata, sia nei poveri che Francesco imparò ad ascoltare come “vicari di Cristo”, come si diceva allora, senz’altro come maestri di essenzialità di vita. Il povero ha bisogno di pane ma è ricco di speranza. Chiara, in modo squisitamente femminile, si definisce “pianticella di Francesco”, che considera sua “unica consolazione dopo Dio”, e ogni volta che nei suoi scritti nomina Dio subito dopo menziona Francesco.

Un quotidiano nazionale, tempo fa, citava il poeta latino Orazio, per il modo che costui aveva di difendersi dalle ferite della vita: per mantenere la felicità – diceva – ci si deve guardare dall’avere lo stupore. “Non stupirsi di nulla è quasi l’unica / la sola cosa … che può fare / e conservare felici”. L’antichità classica era venata di malinconia, ma in un angolo dell’Impero Romano la Fanciulla povera di Nazareth intonò alta la gioia piena di stupore per le grandi cose che il Signore cominciava ad operare in lei, gioia che a poco a poco avrebbe contagiato il mondo. Il Medioevo, tempo di passioni forti, fu percorso dallo stesso stupore e fremito di gioia intonati da Francesco e Chiara sugli accordi del Vangelo della gioia e dell’amore, con tutta la loro vita, la loro fede, insieme con i fratelli e le sorelle. La gioia di Maria, la purezza delle beatitudini di Gesù, riapparvero nell’aria della Porziuncola, di San Damiano, come un prodigio.

Di questi due santi ricordiamo, chi più chi meno, le vicende più note, che risultano essere i frutti della loro vita. Di Francesco: l’amore per la natura e specialmente gli animali, il presepe di Greccio, il lupo ammansito a Gubbio, il tentativo di mettere pace tra Cristiani e Mussulmani che si scontravano nelle crociate, le stimmate ricevute a La Verna, il Cantico delle creature, la fraternità universale, la povertà, la pace. Di Chiara: il suo amore per l’Eucarestia e la sua tenace difesa della povertà e dell’unica ricchezza che è l’amore di Dio, il suo sguardo contemplativo, la sua fedeltà al carisma trasmessole da Francesco. Godiamo dei frutti ma l’elenco rischia di essere una trafila di luoghi comuni, resi inerti dall’abitudine del racconto. Ma a qualcuno vien da pensare alla tenacia e alla fatica degli alberi che li hanno prodotti? Francesco se ne lamentava con i suoi frati quando essi lodavano le virtù dei santi: “è grande vergogna per noi che i santi fecero le opere e noi col solo recitarle vogliamo riceverne gloria e onore”. Alla radice delle vite splendide e ricche di frutti dei santi di Assisi ci sono anni di solitudine con Dio, faccia a faccia con quel Volto nella fatica della fede maturata nell’ascolto della Parola del Vangelo; ci sono percorsi di progressivo spogliamento di sé in lotta con il proprio io egoista e meschino, limato dalla penitenza e dalla vita fraterna, ma c’è anche un grande amore per gli uomini e donne di ogni condizione, come Gesù, con preferenza per i poveri, con i quali hanno imparato e condiviso la fatica, la speranza, la fede. E un amore grande alla Chiesa, di cui si sono sentiti da subito consapevolmente parte, perché in essa c’ è Cristo, perché la Chiesa l’ha fondata Lui, sulla croce, e che, sì, ha bisogno di restauro, di libertà da zavorre e magagne, ma essa è l’àncora di salvezza che Gesù ci ha lasciato. E hanno anche saputo sottrarsi alla tentazione di sempre, quella cioè di voler adattare il Vangelo alla situazione del loro tempo, “interpretare” sfocando così la figura storica e reale di Gesù. Ma non sono fuggiti neppure di fronte alla realtà, spesso violenta, della lebbra che emarginava, delle fazioni in lotta, delle crociate. Il lebbroso incontrato sulla strada ha ricondotto Francesco alla realtà a caro prezzo. E l’amaro prezzo l’ha pagato nella sua anima e nel suo corpo sino alla fine. Il restauro, appunto, comincia non dagli altri ma da Francesco e Chiara stessi, dalle loro persone, e può seguitare con me e con te, fino ad accorgerci con stupore che il soffio d’aria di Nazareth, di Assisi, può respirarsi ovunque ci sia qualcuno che voglia intonare la propria vita sull’armonia di una nuova umanità quando in essa si innesta la Grazia, parola dolcissima che traduce lo sguardo d’amore e di benevolenza di Dio, che risana e porta a compimento.

Fr. Giancarlo Rosati ofm

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