Vivere secondo la perfezione del santo Vangelo

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s-chiara-d-assisi-di-b-tenoreChiara non chiedeva altro di poter vivere «secondo la perfezione del santo vangelo», come Francesco di cui lei si sente semplicemente plantula, la piccola pianta.
La comunità di San Damiano, dal 1211 al 1253, è stata una lunga gestazione di questa nuova forma di vita nella Chiesa.
Sr. Chiara Agnese Acquadro osc

 

Quanto accadde a San Damiano di Assisi il 10 agosto 1253 rimase scolpito nella memoria della comunità delle Sorelle povere e neppure l’evento così emotivamente coinvolgente della morte di Chiara, avvenuto il giorno successivo, poté sfumarne l’intensità e la chiarezza del ricordo. Un frate dalla Curia papale residente in quel periodo ad Assisi era giunto al monastero per consegnare a Chiara morente la lettera con cui Innocenzo IV appena il giorno precedente, 9 agosto, aveva confermato la forma di vita dell’Ordine delle sorelle povere, già approvata il 16 settembre 1252 dal cardinale protettore Rainaldo, vescovo di Ostia. Così narra l’episodio la terza testimone al Processo di canonizzazione, sora Filippa de messere Leonardo de Gislerio: «E desiderando [Chiara] grandemente de avere la regola de l’Ordine bollata, pure che uno dì potesse ponere essa bolla alla bocca sua e poi de l’altro dì morire: e come essa desiderava, così le addivenne, imperò che venne uno frate con le lettere bollate, la quale essa reverentemente pigliando, ben che fusse presso alla morte, essa medesima se puse quella bolla alla bocca per baciarla. E poi lo dì sequente passò de questa vita al Signore la preditta madonna Chiara, veramente chiara senza macula, senza obscurità de peccato, alla clarità de la eterna luce» (Processo di canonizzazione III, 32).

Possiamo immaginare quali sentimenti si agitarono nel cuore di Chiara quando, agonizzante, vide davanti ai suoi occhi il sigillo di piombo col nome di papa Innocenzo IV pendere dalla pergamena che il frate le porgeva. Ora sì poteva dire il suo “Nunc dimittis”. Anche la Sede apostolica aveva riconosciuto la validità di quella forma di vita e ne aveva garantito la perpetuità per San Damiano e per quei monasteri che l’avessero voluta adottare. Il cardinale Rainaldo di Ostia, legato a Chiara da sincera devozione e profondo affetto – sarà lui a canonizzarla ad Anagni nel 1255 una volta salito alla sede di Pietro col nome di Alessandro IV – aveva fatto la sua parte, riuscendo a piegare anche le ultime perplessità del pontefice. Il precipitare delle condizioni di Chiara aveva fatto il resto, tanto che il papa accelerò l’iter curiale della conferma, apponendo di sua mano una nota sul margine superiore sinistro della pergamena, tuttora in parte visibile, per giustificare l’insolita procedura.

La forma vitae dell’Ordine delle Sorelle povere è nella Chiesa un bellissimo esempio della sintesi vitale, tanto più feconda quanto più sofferta, tra dimensione carismatica e dimensione istituzionale. Come Giovanni al sepolcro, l’intuizione di Chiara, l’intuizione dell’amore che rende possibile anche l’umanamente impossibile – perché così doveva sembrare la sua forma di vita agli occhi della gerarchia ecclesiastica – era corsa più veloce della prudenza di Pietro. Chiara, da discepola fedele del Signore, aveva atteso, sicura, perché quell’intuizione non poteva che essere «divina ispirazione».

Non chiedeva altro in quello scritto di poter vivere «secondo la perfezione del santo vangelo» (6,3), come Francesco di cui lei si sente semplicemente plantula, la piccola pianta: «La forma di vita dell’ordine delle sorelle povere, che istituì il beato Francesco, è questa: osservare il santo Vangelo del nostro Signore Gesù Cristo, vivendo in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità» (1,1-2). E questo in obbedienza al papa e alla Chiesa romana e in obbedienza al ministro generale dell’Ordine dei Frati minori, con cui Chiara vuole mantenere uno stretto legame di appartenenza carismatica, essendo San Damiano monastero fondato da Francesco stesso.

«Osservare il santo Vangelo»: non si tratta quindi di cercare una perfezione seguendo una delle vie tracciate dalla grande tradizione della santità cristiana o attraverso l’osservanza rigorosa di norme dettagliate, e neppure soltanto ispirarsi al vangelo o a qualche suo passo privilegiato, ma prendere il Vangelo direttamente, nella sua interezza, quale parola che plasma la vita e con le sue esigenze ne misura la fede, giorno per giorno. «Lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo» aveva scritto Francesco nel suo Testamento. È l’incontro con una persona vivente, il Signore Gesù Cristo, di cui si vuole assumere lo stile di vita che egli abbracciò nella sua incarnazione redentrice e può essere riassunto in tre virtù evangeliche fondamentali: povertà, minorità, carità. È difficile per noi oggi, che spesso leggiamo questi testi senza avere una sufficiente conoscenza del contesto storico in cui nacquero, percepire l’audacia che c’è dietro a questa richiesta di Chiara. Stava riproponendo in chiave monastica, ma integra nella sua forza originaria, l’intuizione di Francesco, che nell’ambito dell’interpretazione della Regola bollata dopo la sua morte era stata più o meno ridotta a questione legalistica: papa Gregorio IX nella Quo elongati aveva risolto il dubbio sollevato dai frati, affermando che essi non sono obbligati ad osservare l’intero Vangelo, ma i consigli evangelici che sono chiaramente espressi come precetti o proibizioni. E nella Regola clariana troviamo più volte tra le righe, come una risposta alle vicende contemporanee, il grido tenace di chi stava custodendo in cuore da anni, con amore appassionato e con la semplicità della fede dei poveri, quell’aspirazione evangelica, di chi aveva per essa giocato la vita e intanto vedeva che intorno a lei nella Chiesa, nell’Ordine maschile, tra i monasteri, sempre di meno la credevano possibile: «E come io fui sempre sollecita insieme alle mie sorelle di custodire la santa povertà che abbiamo promesso al Signore Dio e al beato Francesco, così le abbadesse che mi succederanno nell’incarico e tutte le sorelle siano tenute ad osservarla inviolabilmente sino alla fine: cioè nel non ricevere o avere possedimento o proprietà direttamente né per mezzo di interposta persona, o anche qualcosa che regolarmente  possa essere detta proprietà, se non quella quantità di terra che esige la necessità per il conveniente isolamento del monastero; e quella terra non sia coltivata se non come orto per il loro sostentamento» (6,10-15).

Materialmente la «perfezione del santo Vangelo» prende la forma visibile del sine proprio comunitario, che Chiara si era fatta assicurare con uno speciale privilegio papale, di cui ci rimane l’esemplare di Gregorio IX del 17 settembre 1228. Un privilegio unico nel suo genere, in quanto i registri papali dei secoli XI-XIII sono pieni di privilegi che garantiscono ai richiedenti proprio il contrario, cioè l’inviolabilità delle proprietà monastiche. Ed era in effetti umanamente più sensato per un monastero, per di più femminile e di stretta clausura, avere dei possedimenti, delle rendite fisse con cui assicurarsi il sostentamento quotidiano. Il principio non faceva una piega: avere una sicurezza materiale, per potersi dedicare senza preoccupazioni alla lode di Dio, alla contemplazione. Ma per Chiara e le sorelle di San Damiano è diverso il concetto di contemplazione: per loro la contemplazione è prima di tutto sequela, rivivere nella propria carne il mistero di Cristo, condividerne concretamente la condizione di abbassamento e totale espropriazione e sperimentarne la totale dipendenza dal Padre, nella quotidianità degli eventi. Una via di contemplazione il cui accesso è la povertà e la cui meta è la carità: dalla sequela di Gesù povero e servo, al divenire come Maria dimora permanente della Trinità, secondo l’itinerario spirituale che la santa propone nelle sue lettere ad Agnese di Boemia.

Altissima povertà e santa unità nella carità sono proprio i due cardini su cui ruota tutta la forma di vita clariana, nella forma claustrale che porta entrambi alle estreme conseguenze di radicalità. Povertà come stile di vita che abbraccia tutta l’esistenza, l’esteriorità e l’interiorità delle persone e delle relazioni: povertà delle vesti, recita dell’Ufficio divino senza canto, digiuno continuo, minorità nel servizio reciproco, autorità esercitata come imitazione di Gesù servo, vivere del lavoro manuale, svolto da tutte, e dell’elemosina, obbedienza incondizionata, dipendenza dall’abbadessa nell’uso delle cose e nelle relazioni con l’esterno, rinuncia a imparare a leggere per le sorelle illetterate… «Le sorelle non si approprino di nulla…» (8,1). L’espropriazione in tutte queste forme non è fine a se stessa, è per far spazio a ciò che le sorelle devono desiderare sopra ogni cosa, super omnia, lo «Spirito del Signore e la sua santa operazione», che porta a pregare con cuore puro, all’umiltà, alla pazienza nella tribolazione nell’infermità, all’amore verso i nemici (cfr. 10,9-11) Il sine proprio è per l’unità dell’amore, l’unitas dilectionis, che è il vincolo della perfezione (10,7). Nessuno è più povero di chi ama e nessuno ama come chi è veramente povero. Per questo tutto l’ordinamento della vita di San Damiano è strutturato su una serie di elementi intorno ai quali si costruisce l’unità della carità, in una dimensione di fraternità in Cristo che unisce tutte al di là delle differenze sociali: vita comune per tutte con la sola eccezione per le sorelle più deboli, assenza di privilegi e distinzioni, abbadessa e vicaria comprese, attenzione da parte della madre alle necessità di ciascuna, corresponsabilità da parte delle sorelle nelle scelte della vita comunitaria, capitolo settimanale, condivisione dei ricevuti con la sorella che ne avesse bisogno, cura premurosa delle ammalate, attenzione reciproca che diventa un amarsi e nutrirsi come fa una madre con la propria figlia, correzione fraterna, misericordia che porta il peccato delle sorelle che sbagliano…

Il tutto nell’ampio respiro di quella discretio, la discrezione – una delle parole chiavi del testo, già cara a Benedetto – che lascia all’abbadessa e alle singole sorelle la libertà e la responsabilità di discernere, a seconda delle situazioni e delle diverse persone, ciò che è meglio per vivere il vangelo. Molto più esigente che una norma inflessibile uguale sempre e per tutte, richiede una costante vigilanza su se stessi e un orientamento deciso a vivere, tutte, secondo lo Spirito e non secondo la carne, a mettere ogni cosa a servizio dello «spirito della santa orazione e devozione» (7,2), della comunione con Dio. Nella Regola è tenuta ben presente la dimensione del male, del peccato: Chiara mette in guardia, per esempio, dalla «superbia, vanagloria, invidia, avarizia, affanno e preoccupazione di questo mondo, detrazione e mormorazione, discordia e divisione» (10,6), questi ultimi due termini aggiunti personalmente al passo della Regola di Francesco. Si tiene conto del caso di peccato mortale, «su istigazione del nemico» (9,1), o del contrasto tra due sorelle. C’è pure il timore dello scandalo e di tutto ciò che potrebbe mettere in pericolo l’honestas (altra parola chiave, difficilmente traducibile!) delle sorelle e del monastero. Ma c’è soprattutto una profonda fiducia nell’opera della grazia e nella buona volontà di ogni sorella, presupposto di quella libertà evangelica di ricerca del bene comune a cui vuole educare la forma vitae. Un solo esempio: «Per conservare l’unità dell’amore reciproco e della pace» (4,22), Chiara vuole che sia tutta la comunità ad eleggere, oltre all’abbadessa, le officiali e le discrete del monastero e anche a deciderne la rimozione, semplicemente quando «sembrasse loro utile e conveniente» (4,24)!

A questa limpida e disarmante sapienza evangelica Chiara non è arrivata da sola, ci è giunta insieme alle sorelle donatele dal Signore nel corso dei quarantadue anni di vita a San Damiano. Dal modo in cui lei si autodefinisce nei suoi scritti, potremmo dire che quella di Chiara è “un’identità in relazione”: non si presenta mai da sola, ma sempre in rapporto a qualcuno, a Cristo, a Francesco, alle sorelle. Così la Regola è il frutto dell’esperienza di vita di una comunità, non di una singola persona. Una forma che anno dopo anno, giorno dopo giorno, si è sviluppata sulla base delle linee iniziali date da Francesco nella forma vivendi, integrandosi con la Regola di Benedetto e le norme del cardinale Ugolino, confrontandosi con la vita. Nel testo emergono qua e là le problematiche comunitarie e le risposte che via via venivano date ad esse, forse nei capitoli settimanali, dove si trattava dell’utilitas et honestas monasterii (4,17), come la fraternità di Francesco faceva nei capitoli annuali. La Regola di Chiara – sarebbe meglio dire di San Damiano – è l’espressione di una fraternità che ha cercato di comprendere e definire la propria identità carismatica. La comunità di San Damiano, dal 1211 al 1253, è stata una lunga gestazione di questa nuova forma di vita nella Chiesa.

 

 

Sr. Chiara Agnese Acquadro osc