CHIARA d’Assisi, santa

santa ChiaraUna descrizione storica della vita si S. Chiara fatta dal famoso studioso, frate minore, Ugolino Nicolini, per il Dizionario Biografico degli Italiani (volume 24, 1980).

CHIARA nacque ad Assisi nel 1193 da Favarone di Offreduccio di Bernardino e da Ortolana. Sulla famiglia le notizie, non numerose ma autentiche, ci vengono quasi esclusivamente dal Processo di canonizzazione. È ignoto il casato del padre, che era certamente di antica nobiltà feudale; parimenti sconosciuta la famiglia della madre Ortolana (fattasi anch’ella suora, più tardi, nel monastero della figlia). Del gruppo familiare di Chiara fecero parte sicuramente le sorelle Agnese e Beatrice come anche le nipoti – forse per parte di cugino – Balvina e Amata. Altro particolare, chiarito sufficientemente dagli studi di G. Abate e del Fortini, anche se con qualche divergenza, è quello della casa paterna di C., che sorgeva sulla piazza di S. Rufino in Assisi.

Si è detto che il Processo costituisce la migliore fonte per la biografia di C., data la ricchezza e la completezza delle notizie che fornisce. A poco più di due mesi dalla morte di C., il 18 ott. 1253, Innocenzo IV incaricava ufficialmente Bartolomeo, vescovo di Spoleto, di istruire il processo. Questo venne svolto dalla commissione presieduta dal vescovo in sei giorni, dal 24 al 29 novembre e sostanzialmente in due luoghi: nel monastero di S. Damiano, dove C. era vissuta e morta, furono interrogate quindici suore (a più riprese), e nella chiesa di S. Paolo dentro le mura della città deposero altri cinque testimoni, cittadini di Assisi, quattro uomini e una donna. Il Processo, scoperto e pubblicato con adeguato commento critico dal Lazzeri nel 1920, ci è pervenuto in un volgarizzamento umbro-perugino del Quattrocento. Una contenuta ammirazione, soffusa di devozione e affetto per la santa badessa, della quale le suore davano testimonianza, ha conferito al testo una mirabile patina di semplicità e realismo, doti che qualche volta sono state sfruttate dalla cattiva letteratura di edificazione, facendo rimpiangere la originaria redazione latina, ben più adatta allo studio analitico delle singole deposizioni. È ovvio che dal Processo derivarono direttamente la bolla di canonizzazione di Alessandro IV (Anagni, 19 ott. 1235?) e la Legenda sanctae Clarae virginis attribuita, con molta fondatezza, al biografo di s. Francesco, fra’ Tommaso da Celano. Altra genesi si prospetta invece per la Legenda versificata, il cui testo potrebbe dipendere, nella redazione pervenutaci, da una delle varie stesure – attestate da più manoscritti – della Legenda in prosa, e addirittura da una che precedette la canonizzazione (Bughetti).

Fin dalla prima giovinezza C. aveva seguito lo svolgimento della vicenda del suo concittadino Francesco, che a conclusione di una crisi profonda e misteriosa, aveva abbandonato la casa paterna, la mercatura e i sogni cavallereschi. Che l’ambiente familiare di C. fosse pervaso da grande spirito religioso, e non chiuso nelle ferree consuetudini feudali, potrebbe dimostrarlo il fatto che nella casa nobile e opulenta era emersa una forte personalità femminile: la madre di C., Ortolana, che aveva avuto la possibilità di fare grandi pellegrinaggi e raggiungere anche la Terrasanta. Le figlie di Ortolana, come personalità, carattere e fermezza, non saranno inferiori alla madre.

Non è facile stabilire il preciso momento dell’incontro – ricostruire l’iter cronologico, indagare le componenti psicologiche – delle due esperienze spirituali più significative del Duecento, quello appunto di Francesco e di Chiara. Circa la domanda su chi, tra i due, abbia preso l’iniziativa dell’incontro, l’analisi più attenta non trova discordanze di rilievo nelle fonti. Secondo le deposizioni rese nel Processo, fu Francesco ad andare da C., secondo l’agiografo il desiderio d’incontrarsi, frutto di superiore ispirazione, sarebbe nato contemporaneamente; “voto conveniunt parili” si dice nella Legenda versificata, “visitat ille istam, et saepius ista illum” nella Legenda in prosa. Ma, evidentemente, ciò che conta è che Francesco e C. s’intendono alla perfezione sul modo di “convertirsi”, di fare penitenza, di fuggire il mondo. La fanciulla decide di affidarsi alla guida del giovane convertito (cfr. Leg., 6). Tale decisione provoca conseguenze e scelte a catena e irreversibili: la domenica delle palme del 1211 (28 marzo), secondo il consiglio di Francesco, C. va in chiesa con le altre nobildonne; durante la distribuzione delle palme, mentre le altre donne processionalmente si avvicinano al vescovo celebrante, C. rimane immobile al suo posto; il vescovo allora si dirige verso lei, consegnandole la palma. Il gesto poteva essere un segnale convenuto tra C., il vescovo e Francesco, anche se l’agiografo lo interpreta per un segno premonitore dei privilegi di cui sarebbe stata arricchita da Dio la fanciulla di Assisi. Difatti, la notte seguente C. fugge dal palazzo forse in compagnia di Pacifica di Guelfuccio, che diventa suora con lei. Nella chiesa rurale di S. Maria degli Angeli (Porziuncola) Francesco le taglia i capelli davanti all’altare della Vergine, la consacra alla penitenza e la conduce poi nel monastero benedettino di S. Paolo delle badesse presso Bastia, da dove i parenti tentano di strapparla. Dopo pochi giorni passa a S. Angelo di Panzo, altro monastero benedettino alle pendici del Subasio, poi, finalmente, nella chiesa di S. Damiano, anch’essa nella campagna presso Assisi.

“Qui – dice la Legenda – fissando l’àncora del suo spirito come in un porto sicuro, non ondeggia più nell’incertezza di ulteriori mutamenti, non esita per l’angustia del luogo, non si lascia impaurire dalla solitudine”. La chiesa di S. Damiano è il luogo dove si era verificato, secondo Tommaso da Celano, l’inizio dell’esperienza religiosa di Francesco. “Qui – continua la Legenda -“incarcerò il suo corpo per tutta la vita che aveva innanzi, celandosi dalla tempesta del mondo”.

Chiunque ripercorra le fonti biografiche clariane, dal Processo alla bolla di canonizzazione, alla Legenda, si trova di fronte al problema di una vita – quella di C. – trascorsa per quarantadue anni (ventinove dei quali in stato d’infermità) nel nascondimento di un chiostro, alla quale fa riscontro una crescita grandiosa del movimento da lei suscitato. Il vescovo che raccolse le deposizioni delle suore durante gli interrogatori del processo, l’autore della biografia e il curiale che scrisse la bolla di canonizzazione si trovarono di fronte alla realtà di una distanza cronologica – tra l’epoca della conversione e quella della morte che avrebbe potuto fare perdere il senso della vita trascorsa giorno dopo giorno, forse sentirono che il tempo aveva livellato anni, mesi e stagioni per mostrare soltanto gli attimi memorabili, rarissimi e diversi rispetto al vivere quotidiano. La lotta, insieme con Francesco, per ottenere o difendere il Privilegium paupertatis; la sosta del santo presso S. Damiano circa due anni prima della morte, la partenza della sorella Agnese per Firenze, la morte di Francesco e il passaggio del corteo funebre per S. Damiano; la morte della madre Ortolana e l’arrivo della sorella minore Beatrice, qualche lettera scritta alla beata Agnese di Praga, l’assalto di milizie sbandate di saraceni al seguito dell’esercito imperiale al monastero e l’assedio posto alla città di Assisi, la visita del cardinale Rainaldo e, poco prima della morte, quella del pontefice Innocenzo IV: sono questi alcuni momenti della vita di C. immersa, per tanti anni, nella mera quotidianità, rischiarata dalla fede, mediante la quale ella riusciva, secondo le unanimi testimonianze, a rendere gioiosa la sua esistenza.

L’impostazione della vita monastica a S. Damiano era stata data da Francesco con una Forma vivendi e con delle Observantiae regulares, di cui la critica storica ha discusso a lungo al fine di illuminarne l’originalità in rapporto ai movimenti penitenziali femminili dell’epoca. Le testimonianze esterne all’Ordine delle clarisse (ma così furono chiamate solo più tardi) tra il 1211 e il 1220 risalgono sostanzialmente a quelle di Giacomo da Vitry e ai provvedimenti adottati dal cardinale Ugolino (vescovo ostiense) per i monasteri di S. Damiano, di Porta Camollia di Siena, di Monticelli presso Firenze, della Gattaiola a Lucca e di Monteluce a Perugia.

Senza pretendere di portare nuovi chiarimenti nella discussione, è necessario almeno riassumerne gli elementi essenziali. Della primitiva Forma e delle Observantiae ben poco ci è direttamente pervenuto; delle ultime, che furono adottate a Monticelli, parla anche C. in una lettera ad Agnese di Praga. Ma i due suddetti nuclei di norme che costituivano il modus vivendi di S. Damiano erano rinforzati e caratterizzati essenzialmente dal fermo proposito di Francesco e di C. di escludere ogni possibilità di dotazione patrimoniale; si trattava cioè di adottare anche per le clarisse il principio della povertà assoluta, personale e comunitaria, come Francesco aveva voluto per i frati minori. Tuttavia, dopo il concilio lateranense IV del 1215, che con il canone 13 aveva proibito l’introduzione di nuove forme di vita religiosa organizzata e l’obbligo, per eventuali fondatori, di adottare una delle regole in vigore, il cardinale Ugolino, su delega papale, preparò una nuova Formula vitae. Si trattava di strutturare la nuova organizzazione di Francesco anche sotto l’aspetto giuridico e di legittimarla canonicamente. Per questo la Formula ugoliniana si accompagnava alla regola benedettina secondo la riforma cisterciense; il cardinale Ugolino la impose ai cinque monasteri dell’Umbria e della Toscana, sopra nominati. Il testo di questa Formula è ben conosciuto. Nel 1228 già era trascritto nella bolla spedita alle “damianite” di Pamplona in Spagna; lo stesso Gregorio IX è autore di un’altra stesura inviata al monastero di Ascoli Piceno nel 1239, come Innocenzo IV si può considerare padre di una terza redazione con le bolle del 1245 inviate ai monasteri di Pamplona e di Salamanca (Vasquez, Omaechevarria). Il nucleo primitivo della Forma di s. Francesco attraverso complicate vicende, studiate più o meno attentamente, si evolve e poi viene riassorbito sostanzialmente nella Regula del 1252-53 che, a pieno diritto, secondo l’autorità della Sede apostolica, è detta “la forma di vita e il modo di santa unità e di altissima povertà che il beato padre vostro Francesco vi consegnò a voce e in scritto da osservare” (Regula, 16). Più acutamente, oggi si tende a individuare il modus vivendi istituito da Francesco a S. Damiano confrontandolo con quello descritto da lui stesso nella Regula pro eremitoriis data, brevi, devote e umanissime indicazioni per i frati viventi in solitudine (Lainati).

Più complessa, senza dubbio, la questione che concerne il privilegium paupertatis. Se anche per i frati, pur pellegrini e itineranti, Francesco ben presto ebbe bisogno di un’approvazione pontificia, la cosa diventava più delicata per i monasteri femminili o “hospitia”, come li chiamava Giacomo da Vitry; al concetto di monastero si accompagnano la “stabilitas loci”, il patrimonio fondiario, i possedimenti. “Stabili” erano anche C. e le sue compagne sia di S. Damiano sia degli altri quattro monasteri; ma sotto quale giurisdizione, con quali leggi? (Callebaut). Il concilio lateranense IV doveva essere rispettato ad ogni costo; sembra, anzi, che Innocenzo III già prima dell’apertura del sinodo si sforzasse di normalizzare le situazioni che avrebbero cozzato con i suoi progetti. Così con il titolo di badessa fatto assumere a C. verso il 1215 e con il privilegium paupertatis sicuramente accordatole – mediante il quale stabiliva che nessuno la potesse obbligare a ricevere possedimenti -, Innocenzo III escogitava degli strumenti giuridici atti “a conciliare la realizzazione dell’ideale evangelico-francescano con la norma del concilio e, in sostanza, ad unire il vecchio con il nuovo” (Callebaut). È ben noto che il documento introduceva una tale novità nel modo di sostentamento di fondazioni monastiche femminili (almeno di quella di S. Damiano), che lo stesso cardinale Ugolino, anche quando fu papa Gregorio IX, cercò di eliminarlo o di mitigarlo; con C. non vi riuscirono né lui né Innocenzo IV. D’altra parte, che lo stesso cardinale Ugolino fosse un ammiratore irriducibile della regola benedettina secondo la riforma cisterciense si desume anche dall’estrema asciuttezza del testo con cui rinnovò a C. il detto privilegium il 17 sett. 1228 e dall’intervento del 9 febbr. 1237 con cui, in nome delle buone consuetudini cisterciensi, proibiva alle clarisse l’uso della carne. Non è chiaro, invece, lo scopo dell’altro privilegio concesso dallo stesso Gregorio IX a S. Damiano il 2 dic. 1234, con cui vietava agli uffici della Curia papale di citare in giudizio le suore senza la menzione del detto privilegio.

Il movimento spirituale iniziatosi con l’esperienza di C. ebbe un successo enorme nell’ambiente femminile non solo italiano, ma europeo. Soltanto a fermarsi sull’aspetto quantitativo, non è facile spiegare come nel 1253, alla morte di C., in Italia fossero sorti almeno sessantasei monasteri (Pratesi), con un numero di suore non inferiore a trenta per ciascuna casa; a S. Damiano ne vivevano cinquanta. Le fonti legislative, narrative e letterarie sulla presenza della donna nella società medievale ci informano ampiamente, dallo Speculum virginum, redatto probabilmente verso il 1100, fino all’autore della Legenda di s. Chiara, circa la funzione della verginità e circa la condotta della monaca nel monastero (Verdon): il lavoro la preghiera, la mortificazione, il vitto, il riposo, insomma tutti gli aspetti della vita religiosa sono descritti minutamente e il quadro che ne risulta è una grande e unanime esaltazione dei vantaggi della vita monastica stessa rispetto alle condizioni della vita secolare. Ma se tutto ciò è riconducibile alla visione tradizionale della esperienza religiosa claustrale ed è sicuramente connesso anche a cause di sviluppo demografico, economico e sociale in genere, non lo è per l’esperienza fatta da C. a S. Damiano, fenomeno unico e irripetibile, come, per altro, quello di Francesco.

Per quanto poi il santo di Assisi avesse promesso ogni assistenza a C., il suo modo di comportarsi denotava una certa trascuratezza agli occhi dei compagni e di C. stessa. Tuttavia, nell’inverno del 1224-25, Francesco soggiornò a S. Damiano a lungo per curarsi la malattia degli occhi; in quel periodo compose il Cantico delle creature e “dettò altresì alcune sante parole con melodia, a maggiore consolazione delle povere signore del monastero”. Nell’ottobre dell’anno 1226, all’indomani della morte di Francesco, i cittadini di Assisi, trasportando le spoglie del santo dalla Porziuncola alla chiesa di S. Giorgio, passarono per S. Damiano perché C. e le compagne potessero rivedere e baciare il corpo del loro padre attraverso la grata appositamente aperta. Tommaso da Celano tramanda anche il “pianto” detto da C. sulle spoglie mortali di Francesco.

Non si sa nulla di particolare circa le reazioni di C. di fronte alla glorificazione di Francesco, alla canonizzazione fatta da Gregorio IX in Assisi nel luglio del 1228, alla costruzione della grande basilica. È naturale supporre, tuttavia, che la sua testimonianza vivente dell’ideale evangelico di Francesco, specialmente in materia di povertà, desse adito ad interpretazioni rigoriste, fino a coinvolgerla in uno schieramento ben definito, quello degli spirituali. Del resto C. stessa nel 1231, di fronte alla bolla Quo elongati di Gregorio IX, che interpretava in modo alquanto restrittivo il cap. XI della Regula bollata dei frati minori circa i rapporti di questi con i monasteri, reagì drasticamente, allontanando anche i fratelli questuanti con i quali l’Ordine l’assisteva economicamente.

Dopo la morte di Francesco, C. rimase sola a lottare per conservare la purezza dell’ideale evangelico tra le “povere donne”, specialmente per quanto riguardava il privilegium paupertatis in vigore a S. Damiano. La Formula vitae ugoliniana guadagnava sempre più consensi tra i monasteri, in modo particolare, come è ovvio, dopo che l’autore nel 1227 fu eletto papa. Il suo cappellano, il cisterciense frate Ambrogio, continuò a rappresentarlo nel proposito fermo di dotare i monasteri con adeguati possedimenti ma C. si oppose e ottenne dal papa, come si è accennato sopra, la conferma del privilegio; si oppose anche alla nuova Regula emanata da Innocenzo IV nel 1247, la quale, anche se aveva eliminato il richiamo alla regola di s. Benedetto, contenuto – con valore puramente formale – nella suddetta Formula ugoliniana, aveva riaffermato l’autorizzazione ai monasteri di possedere in comune beni immobili e di percepirne i frutti. Per più motivi tale Regula innocenziana non incontrò il favore delle monache, e non solo di quelle di S. Damiano; ragion per cui lo stesso pontefice, viste inutili le sue molte pressioni, nel 1250 dichiarò che non intendeva imporla. C. in questo periodo si vide autorizzata a rielaborare quella “sua” Regula che, secondo la deposizione di suor Filippa nel Processo, poté baciare due giorni prima di morire, inserita nella bolla papale fattale pervenire da Innocenzo IV.

Molti interrogativi ha suscitato la genesi di questa Regula del 1252-53. Come dice espressamente il pontefice, il testo era quello approvato dal cardinale Rainaldo (vescovo ostiense, poi Alessandro IV), protettore dei frati minori e delle clarisse, sottoscritto a Perugia il 16 sett. 1252. Il cardinale a sua volta afferma che la Regula non è altro che quella data alle suore di S. Damiano da s. Francesco. Secondo il Lazzeri, Francesco, l’anno successivo all’approvazione della Regula dei frati minori da parte di Onorio III, avrebbe curato la stesura della Regula delle “povere donne”, la quale ricalca ordinatamente quella dei minori: stesso numero di capitoli (dodici, che neppure in questa figurano con la indicazione numerica), stessa titolazione dei capitoli, stesso formulario della Cancelleria pontificia. Si deve ritenere, tuttavia, che C. abbia vegliato personalmente sulla stesura del 1252 per “fermare e sottolineare con chiarezza i legami” considerati “essenziali per il nuovo Ordine: osservanza del Vangelo, obbedienza al papa e alla Chiesa, obbedienza a s. Francesco e ai successori di lui. Tutte le suore poi sono tenute ad obbedire alla abbadessa che esprime tali impegni e legami” (Olgiati).

Tra il 1235 e l’anno della morte si colloca un periodo di una certa attività scrittoria di Chiara. Suoi scritti autentici si considerano oltre la Regula del 1252-53, quattro lettere alla beata Agnese di Praga; non autentici sono ritenuti il Testamento (ricalcato su quello di s. Francesco) e la lettera a Ermentrude. Le quattro lettere ad Agnese non sfuggono alla questione fondamentale che la critica storica si è posta a mo’ di interrogativo preliminare: su quale cultura o su quale formazione intellettuale si basa la spiritualità di Chiara? Gli studi, le analisi, gli approfondimenti in questo settore, proprio come è accaduto per gli scritti di s. Francesco, non hanno raggiunto alcuna certezza. Stimolata anche dalla necessità di dare un volto uniforme al suo Ordine che si diffondeva in tutta l’Europa, C. intraprese la corrispondenza epistolare con la figlia del re di Boemia Ottocaro, Agnese, la quale fin dal 1234 aveva fondato un monastero e ne aveva assunto la guida seguendo la Forma vitae di S. Damiano. Al di là di alcune notizie storiche sulle Observantiae in vigore nel monastero di Assisi, le lettere mettono in evidenza i propositi che muovono l’azione di C., i principî che illuminano l’attitudine del suo spirito, insomma il suo mondo interiore, che è sempre un “riflesso” del mondo di Francesco (Breton, Lainati).

Due fatti strepitosi irrompono in modo assolutamente insolito nella vita di C. e del suo monastero, l’una e l’altro immersi nella preghiera e nel silenzio; entrambi gli episodi si riferiscono ad azioni di guerra. Sono narrati in modo distinto dalle suore che depongono nel Processo e dall’autore della Legenda (alla quale ultima attinge per il suo racconto il cronista fra’ Elemosina), e cronologicamente collocati “in quel periodo travagliato che la Chiesa attraversò in diverse parti del mondo sotto l’impero di Federico [II]” e quando specialmente la “valle Spoletana beveva più spesso delle altre il calice dell’ira” (Legenda, 21). Il primo episodio sembra alludere all’incursione di milizie sbandate di saraceni, al seguito dell’esercito imperiale, che assalgono il monastero di S. Damiano; nel secondo si parla espressamente dell’assedio posto ad Assisi da Vitale d’Aversa, valoroso comandante dell’esercito di Federico II. In entrambi i casi la liberazione o la salvezza (del monastero e della città) sono attribuiti all’intervento prodigioso della preghiera di Chiara.

Arrivata la Curia romana a Perugia da Lione nel novembre del 1251, C., tramite il cardinale Rainaldo, aumenta le pressioni per avere la conferma della Regula, che dal cardinale stesso ottiene, come detto sopra, nel settembre dell’anno successivo, forse in una delle visite da lui fatte al monastero. Ma ormai C., dopo ventinove anni di malattia, è giunta agli estremi. Innocenzo IV nel maggio del 1253 si trasferisce in Assisi con la Curia e più tardi si reca a visitare la inferma; essa gli chiede la bolla per la Regula approvata dal cardinale Rainaldo. Il 9 agosto due frati gliela portano e C. muore in pace l’11 agosto. La notizia della morte fa accorrere a S. Damiano il papa con la Curia e tutta la città. Innocenzo IV, secondo il racconto dell’agiografo, ordinando di recitare l’ufficio delle vergini, non quello dei morti, manifesta la volontà di canonizzarla subito. Con maggiore calma e prudenza si percorse, in seguito, tutto l’iter delle formalità per giungere, nell’autunno del 1255, alla bolla di canonizzazione Clara claris praeclara meritis nella quale, prima di narrare succintamente la vita, l’autore, con sfoggio di artifici retorici, usa undici volte la parola “Clara” e diciannove dei vocaboli derivati.

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