La tavola di colori che parlò a Francesco

Una meditazione spirituale sul Crocifisso di san Damiano di Maria Gloria Riva madre superiora delle monache dell’Adorazione Eucaristica.

Il Crocifisso di San Damiano, prediletto dal Poverello, è un condensato di spiritualità e teologia.

«Va’ e ripara la mia chiesa!»: sono le parole che Francesco si sentì rivolgere davanti alla croce detta di San Damiano, all’inizio dell’anno 1207. Appeso nella basilica di Santa Chiara dal 1257, il crocifisso continua a parlare ai milioni di visitatori che salgono ad Assisi attratti dalla figura di Francesco. Appartenente al genere delle croci dipinte, è databile attorno al 1100 ed è opera di un artista anonimo. Le croci istoriate ebbero larga diffusione fra XI e XII secolo: oltre al Cristo crocefisso rappresentavano gli eventi della Passione, per rafforzare la fede del popolo di Dio, scossa dallo scandalo delle lotte fra cristiani e dal mal costume del clero. Per l’uomo del medioevo, gli occhi aperti, le braccia spalancate come in volo, la grande maestà della postura del Cristo sulla Croce erano segno sì del Christus Triumphans, cioè del Risorto che trionfa sul male e sulla morte, ma anche dell’Albero di vita.

I piedi formano con le piaghe delle mani quattro rigagnoli di sangue, come un rimando ai fiumi dell’Eden. L’uomo a motivo del peccato aveva perduto il Paradiso, ora Cristo grazie alla sua offerta sacrificale lo riapre. Significativo è il nodo del perizoma. Si tratta del nodo di Salomone, presente in quasi tutti i crocifissi antichi e in tutte le pavimentazioni musive delle cattedrali romaniche. Questo nodo, tirato per un verso si apre facilmente, ma per l’altro si chiude irrimediabilmente. Così era la sapienza salomonica, ma ancor di più è la potenza di Cristo: egli se apre, apre in eterno; se chiude, chiude per sempre.

Tanto incise la croce nella vita di Francesco che egli volle, per sé e per i suoi, un abito a forma di croce: marrone come il legno e con la forma del Tau. Per mera coincidenza è bruno anche l’abito del Cristo che ascende al Cielo, dipinto nella cimasa. Entra accompagnato da dieci angeli e dalla mano benedicente del Padre. Sei angeli, significanti i giorni della Creazione, salutano il Redentore, mentre quattro, significanti i punti cardinali e cioè l’umanità, commentano l’evento pieni di stupore. Il significato è chiaro: Cristo ha portato a termine la sua giornata di lavoro sulla terra e riapre il paradiso perduto ricevendo la corona di gloria. Il numero degli angeli sale a quattordici, contando anche quelli dei bracci orizzontali. Qui vediamo anche due personaggi che indicano probabilmente i discepoli, cioè quell’umanità che ha riconosciuto nella croce l’Albero di vita.

Lungo il corpo di Cristo due tavole raccontano la Passione: a sinistra Maria riceve Giovanni come figlio; il sangue di Cristo, colpisce anzitutto loro perché sono la Chiesa nascente dal Sangue redentore. Sotto, molto più piccolo, Longino, che colpì con la lancia il costato di Cristo e fu, secondo la tradizione, il primo pagano battezzato della storia. A destra Maria di Magdala, Maria di Cleofa e il centurione a mano levata, che riconosce Gesù come Figlio di Dio. Nelle loro vesti domina il rosso, colore della testimonianza e del martirio. La mano del romano disegna un tre, attestando così il Mistero della Trinità e le due nature di Cristo. Dietro il capo del centurione si scorgono altri volti. Sono coloro che, mediante tali testimoni, crederanno. Nel piccolo volto visibile alcuni vogliono riconoscere l’autoritratto dell’artista che realizzò l’opera.

Sempre più in piccolo, opposto a Longino, abbiamo Stephaton, il soldato che secondo la tradizione corse a prendere una spugna imbevuta d’aceto per dar da bere al Redentore. Il suo abito blu dice il mistero di quel gesto, profezia di un banchetto che si compirà in cielo.

I piedi sono la parte più vicina all’osservatore e poggiano su una predella scura, segno di quella morte che è stata vinta. Lì, sotto l’altare della croce, ci sono i santi, esattamente come sotto l’altare della celebrazione ci sono le reliquie. Benché molto rovinati si riconoscono in essi i patroni dell’Umbria: san Giovanni apostolo, san Michele, san Rufino, san Giovanni Battista, san Pietro e san Paolo (gli unici con l’aureola). Proprio sopra a Pietro brilla la fiaccola della fede e canta il gallo della resurrezione. Segni eloquenti che raccontano al popolo di Dio come nessun tradimento potrà mai offuscare un dono d’amore tanto grande come quello del Cristo crocefisso e risorto.

 

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